La cultura digitale: vade retro, web!

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La cultura digitale: vade retro, web!

Da qualche mese stiamo lavorando con piccole realtà aziendali per aiutarle a sviluppare strategie di web marketing. La tattica è basata su due requisiti fondamentali: empatia e breve durata; e un obiettivo chiaro: fare in modo che il cliente non abbia più bisogno di noi.

Le realtà che ci troviamo di fronte sono molto simili fra loro e hanno in comune soprattuto un aspetto: non credono fino in fondo che il web marketing e soprattutto il social media marketing possano influenzare positivamente il loro business. Sì, il business non passa dal web. O meglio, il pensiero comune di una certa classe di imprenditori è quella di costituirsi al web perché si fa, perché si dice che è importante, perché non puoi farne a meno.

Ma è tutto qui. È come seguire una tendenza che in qualche modo, e in modo soprattutto casuale, può portarti dei vantaggi in termini di presenza, di socialità, di vivacità. Per sentirsi al passo con i tempi. Come indossare delle converse negli anni 80 mentre vestivi una giacca monopetto con revers a lancia, come girare con degli AirPods mentre leggi Libero, oggi. E lo testimonia un semplice fatto: la maggior parte di queste realtà aziendali non ha nel suo organigramma una figura che si occupa di digital marketing. Anzi quando c’è, è cosa ancora peggiore: di solito una persona preposta nel tempo libero a chattare, postare, pubblicare qualsiasi cosa sui profili social dell’azienda pur di essere visibile. Un fedele esecutore di mediocrità.

Potete capire quali difficoltà possono esserci per chi, come noi, cerchiamo di inculcare una certa cultura digitale in un ambiente che non ne sente il bisogno strutturale, non ne vede il senso strategico e non ne sfrutta il potenziale commerciale e reputazionale. Questa difficoltà ci ha spinto a riflettere su come cambiare l’approccio al cliente.

Ogni azienda ha la sua identità (non per forza quella commerciale). Prima ancora del suo core business. Nel disegno strategico, ci piace partire sempre dalla prima che è spesso la risultante del mix delle persone che ne fanno parte, della loro età, dell’equilibrio di genere, della mentalità, del senso di appartenenza e dell’approccio al cambiamento e all’innovazione. Il modello di business è spesso solo una conseguenze del modello culturale dell’azienda. Diciamo questo per una sola ragione: i direttori di piccole aziende, spesso a conduzione familiare, ti ascoltano solo se proponi loro qualcosa che ricalchi la loro mentalità di fare business e il loro modo di essere in contatto con i valori della sua azienda. Non serve parlare tanto di quello che fanno e vendono. Questo significa entrare in contatto con la reason why aziendale e solo così puoi sperare che la tua idea editoriale digital possa essere presa in considerazione (a patto che verrà sicuramente stravolto…).

Abbiamo voluto segnare quella che è la nostra esperienza, messa in pratica in maniera anche fallimentare sulla nostra pelle, per toccare con strumenti, parole, dati, quella reason why aziendale che all’improvviso fa cambiare nel volto del tuo interlocutore l’intensità della sua attenzione (spesso trasformata in un output comportamentale, come un sorriso sul margine sinistro del labbro superiore, una scossetta della spalla destra, una frase scritta all’improvviso su un foglio, uno sguardo di complicità segretissima con il collega vicino).

Spesso si dice che lo scopo del marketing sia far comparire nella lista dei desideri interiori di una persona un bisogno fino ad un secondo prima sconosciuto. E che il marketing con la M maiuscola sia quello che porta istantaneamente in cima alla lista quel bisogno. E si dice che questo debba essere anche lo scopo di un buon venditore di consulenze.

Ma esistono due problemi: uno di natura etica e uno di natura pratica. Il primo dice che la pratica “sgamata” di inculcare nella mente di una persona un desiderio, prima di allora sconosciuto, è effimera tattica. E chi ci tenta con poca scaltrezza e con poco metodo rischia di rompere il feeling della contrattazione prima che questa prenda forma. Il secondo problema, quella di natura pratica, è che davvero non è utile e non è proficuo accendere nell’interlocutore una fiamma che poi deve essere costantemente rinvigorita, giorno dopo giorno, settimana dopo settimana, dal soffio delle vostre continue promesse.

Quindi, cosa potrebbe funzionare per convincere un cliente a consegnarti le chiavi del suo cruscotto digitale? Semplicemente, ma non tanto: migliorare la cultura del luogo. Migliorare la cultura aziendale di un luogo significa produrre fatturato. È come dire: io ti do la mia disponibilità a migliorare la condizione della tua azienda, a potenziare la tua capacità di espansione, ma tu devi mettermi nelle condizioni di conoscere la tua reason why. L’obiettivo allora è quello di entrare in contatto con il cuore pulsante della mission aziendale. E usare tutte le tue doti comunicative, dall’ascolto attivo alla riformulazione dei concetti.

Non è solo conoscenza della materia, non è solo tecnica, non è solo mirroring, non è solo coinvolgimento emotivo, non è spionaggio, non è in nessun modo menzogna. Anzi, se sentite dentro di voi un’avversione palese verso quell’ambiente con cui siete entrati in contatto, e che lo sforzo di una menzogna è l’unica possibilità che avete per entrare nelle grazie del cliente….ebbene… lasciate stare. Ascoltate il messaggio. Se quell’ambiente è sgradevole, è inquinato, non sarete voi, o operosi fornitori di servizi di marketing, a migliorarlo. Anzi sarete lì a nutrire il mostro. Meglio allontanarsi…

Rivelare la reason why è cosa non semplice, non perché sia difficile riconoscerla e agire su di essa, ma perché spesso la reason why è come il nucleo ribollente di ferro fluido nascosto nel cuore della Terra. C’è, si muove, determina l’attrazione magnetica, dà peso alla Terra, ma è nascosta, dimenticata, rimossa a volte, perché tendiamo a guardare solo la superficie e nel migliore dei casi – i più ambiziosi- le stelle. In parole povere, persi nell’affanno dell’operatività quotidiana, delle scadenze, nella raggiungimento di obiettivi semestrali, della chiusura di bilancio, nell’approvazione dei piani di sviluppo triennali, spesso ci capita di dimenticare il perché ci stiamo sbattendo così tanto. Se la risposta è: “perché mi pagano!”, ok, capisco, ma non è la risposta che aggiunge valore alla cultura (uguale profitto) dell’organizzazione. Quindi non ha nulla a che fare con la reason why.

Ecco, molto del lavoro del consulente si concentra qui: nel fare emergere la ragione di tutto questo sbattimento anche nel cliente. E non basta che esibisca, e si nasconda, dietro uno statuto appeso ad una parete.

Ecco che entriamo nel vivo: empatia e durata minima delle relazione. Non avere fretta, perché il percorso di conoscenza deve essere lento, costante, con una curva di crescita lieve, appena accennata e, via via, esponenzialmente più alta. L’empatia l’abbiamo sperimentata sempre, semplicemente disinteressandci di come l’azienda fa soldi (o meglio, sapere senza farlo diventare il perno della ricerca) e interessandoci alla storia, all’ambizione, alla motivazione, alle piccole abitudini, ai rituali, ai dettagli. A volte la rivelazione di una curiosità offre più conoscenza di una storia esemplare. Una battuta può essere più illuminante di una dichiarazione ufficiale. Un caffè al bar, più di una conferenza. Ecco, la reason why spesso è dietro le piccole cose. E le piccole cose le cogli con l’attenzione e con un atteggiamento aperto, colloquiale, in qualche modo, spontaneo. O meglio, volutamente spontaneo.

Allora in pratica cosa ci sentiamo di consigliare?

  • conoscere il cliente e il settore in cui si muove, acquisendo tutte le informazioni che lo riguardano. A volte basta fare una buona ricerca in rete.
  • capire qual è la consapevolezza che il cliente ha del proprio business.
  • comprendere quali sono i punti di forza e di debolezza interni dell’azienda.
  • capire le ambizioni, le paure, i limiti e i desideri del cliente.
  • raccogliere storie ed episodi di vita quotidiana lavorativa del cliente e in generale di chi fa parte dell’organizzazione.
  • portare alla luce episodi che raccontano un loro successo.
  • cogliere nel team i possibili alleati e i possibili nemici.
  • domandare per portare la conversazione su un argomento davvero saliente della loro strategia.
  • curare e nutrire la narrativa del vostro rapporto. Sì, il rapporto di consulenza deve essere una vera storia di emozioni e pensieri che producono una realtà viva, conflittuale e collaborativa, fatta di errori, successi, miglioramenti.

Cosa invece ci sentiamo di sconsigliare?

  • arrivare con un pacchetto di soluzioni pronte all’uso.
  • narrare esperienza di successo di competitor con cui magari hai avuto modo di lavorare.
  • sponsorizzare se stessi ad ogni richiesta/idea del cliente come a dire: sì sì, questa la so, questa te la risolvo in 5 minuti.
  • semplificare eccessivamente le richieste del cliente riducendole a casi teorici, inquadrandoli in “situazioni tipiche” senza un attento approfondimento analitico.
  • presentare un piano strategico già chiuso, magari di 100 pagine, come fosse un compito da valutare.
  • colpevolizzare il cliente perché non ha una cultura del digitale.

Diciamo che, usando una terminologia tipica del marketing: l’approccio costruttivo passa per una processo bottom-up e non top-down. E il consulente non è solo dispensatore di soluzioni tecniche e tattiche ma è una figura ibrida: psicologo, formatore e stratega. O più semplicemente dotato di sensibilità. E questo vale, ripeto, per le micro, piccole e, a volte, medie realtà aziendali che costituiscono il 70% dell’imprenditoria italiana. Poco strutturate, poco aperte alla dimensione globale, poco abituate a ragionare secondo le logiche del marketing digitale: pertanto è sensato, soprattutto in questo contesto, spendere molte delle proprie energie da consulente nella creazione di una relazione, con un investimento emotivo decisamente alto.

Sarebbe possibile schematizzare questo concetto prendendo in prestito il sempre valido schema della leadership situazionale. Se sei curioso vai qui.

Cosa c’è oltre l’empatia? L’autonomia del cliente, ovvero liberarsi del cliente il prima possibile.

Facciamoci prima queste domande: quanti di noi studiano per restare schiavi dell’ignoranza? Quanti di noi acquistano un’auto per legarsi ad una finanziaria? Quanti di noi viaggiano per sentire la mancanza di casa? Immagino ben pochi, perché lo scopo di una persona che spende soldi ed energie è quello di trovare un beneficio che lo liberi da qualcosa: studiare per liberarsi dell’ignoranza, pagare le rate alla banca per avere la libertà di un auto tutta propria, liberarsi della monotonia della proprie abitudini partendo per un viaggio entusiasmante.

Sembra tutto semplice, anzi banale, direte. E lo è. Ma allora perché un cliente non dovrebbe voler liberarsi del consulente? Certo che lo vuole, perché ciò significa che ha raggiunto una certa autonomia, ovvero ha raggiunto una cultura tale da non avere più bisogno di chi gli dica cosa fare. Ma se questo è quello che vuole il cliente, ed è condivisibile, perché questo non deve essere anche l’obiettivo del consulente? D’altronde l’empatia genera anche questo: condividere gli obiettivi.

Come si traduce tutto questo nella pratica quotidiana del consulente rispetto al cliente? Condividere strumenti, far capire che il cliente è in grado di gestire, capire, guidare il suo destino. Avere come obiettivo quello di abbandonarli un giorno, come se il consulente fosse un tutore e il cliente un maggiorenne che si è reso conto della propria intelligenza e capacità. Ecco perché servire i clienti significa prima di tutto portarli sempre più all’autonomia. Diciamo che, alla persuasione, all’abitudine, alla sottomissione, si preferisce quello che si dice, angolosassonicamente, empowerment.

È un po’ una contraddizione. Lo sappiamo. Ma forse è meglio chiamarla rivoluzione. Significa negare l’idea del marketing secondo la quale occorre inculcare sempre più bisogni, proporre upgrade, offrire servizi sempre più perfettibili, disseminare da bravo venditore di caramelle, gelatine sempre più zuccherate lungo la strada che porta il bambino, passo dopo passo, dal dentista, che casualmente sei sempre tu!

A questo punto qualcuno potrebbe obiettare: “tutto sensato, bello e buono, ma…cosa ci guadagna un consulente, perdendo un cliente?”

Ci sono almeno 4 ragioni perché ciò rappresenta un vantaggio per il fornitore:

  1. un’occasione di migliorarsi costantemente in una tensione verso la qualità del settore.
  2. far parlare bene di sé.
  3. diventare un punto di riferimento sempre più alto e sempre più pagato nel proprio mercato di riferimento.
  4. se un vecchio cliente avrà bisogno di te, si farà vivo più generoso che mai, perché sa che solo tu puoi capirlo, solo tu sei stato capace di toccare come nessuno ha mai fatto, la loro reason why.

Cosa c’entra allora il titolo di questo articolo? Bè, ci arriviamo e concludiamo.

Diventare il consulente marketing di un’azienda è difficile, e lo è, come dicevamo all’inizio dell’articolo, soprattutto se parliamo di consulenza digital. La consulenza digital odora spesso di fuffa. Facebook, Instagram, Google…come fanno a produrre ricchezza? Come si può monetizzare attraverso attività così effimere? Come possono le 24 ore di una story di Instagram generare profitto? Come è possibile che un post di facebook possa convincere una persona a comprare qualcosa? Queste perplessità le leggi in faccia ai tuoi clienti, ad ogni parola che dici.

Ecco perché, occorre disinteressarsi del come far funzionare il digital marketing, e concentrarsi su cosa può essere il digital marketing per la reason why aziendale. Come il digital marketing può contribuire alla consistenza karmica dell’identità aziendale. Il punto di debolezza del digital marketing può essere rovesciato in punto di forza cambiando il paradigma: il digital marketing non è il braccio armato della vendita (nessuno ci crede!). Il digital marketing è la voce dell’identità di una’azienda, è l’ecosistema in cui l’identità di una azienda si muove, si sviluppa, diventa cosciente delle proprie potenzialità e…infine…monetizza con una certa miracolosa scientifica spontaneità. E così anche una story di 24 ore può acquistare un potere incredibile in termini di profitto.