Massimo Vignelli diceva “Gli stili vanno e vengono. Il buon design è un linguaggio, non uno stile”. Mai niente di più vero anche nel 2021. Troppo spesso, infatti, tendiamo a costruire la casa dal tetto, cioè a cercare di inseguire lo stile del momento senza una reale costruzione di una grammatica visiva di cosa si vuole comunicare con il nostro design, e andando solo successivamente ad affrontare il come lo si fa.
Mi piace spesso fare il parallelismo con la musica e di come si costruisce una canzone di successo. Possiamo certamente investire tutto il nostro tempo nella ricerca del suono giusto e dell’arrangiamento, ma se la canzone non avrà il giusto messaggio e la giusta melodia difficilmente riusciremo ad arrivare al cuore dell’ascoltatore.
Nel design ci troviamo di fronte ad una situazione molto simile. Trovato il messaggio e la gerarchia visiva che lo amplifica, potremmo poi dedicarci alla ricerca del nostro suono, questo sì, che potenzierà al massimo l’impatto dei nostri visual sulla nostra audience di riferimento.
Non voglio dire che dobbiamo evitare di guardarci intorno, di essere curiosi e lasciarci affascinare dalle sperimentazioni grafiche. L’importante è tenere il giusto distacco e non rimanere incastrati nella bolla.
Molte piattaforme che nascono per condividere e rendere virali artefatti visivi (parlo di Pinterest, Instagram, oppure Dribbble e Behance per i più addetti ai lavori) possono sicuramente essere delle ottime fonti di ispirazione ma al tempo stesso possono generare in noi quella frustrazione tipica da riprova social che molto più probabilmente ci bloccherà piuttosto che stimolarci.
Usiamo queste piattaforme per cogliere le idee che ci piacciono ma poi costruiamo un nostro stile che sia fatto su misura del progetto e delle sue necessità.
Per fare un esempio pratico: potremmo usare uno stile flat e minimal per logo e tipografia mentre potremmo invece tentare qualcosa di disruptive con uno stile dissonante per le nostre illustrazioni o per l’impaginazione del nostro sito se vogliamo che il nostro brand rappresenti energia, dinamicità e creatività. Non precludiamoci mai nessuna possibilità, lasciamoci ispirare certamente ma poi traduciamo il tutto in un output che risponda ai nostri obiettivi comunicativi.
Fatta questa doverosa premessa andiamo a vedere quindi quali sono i trends più in voga oggi cercando di approfondire e non fermarci a un semplice giudizio estetico. Quali possono essere i trigger che attiveranno e quali, secondo noi, è meglio usare per rappresentare i valori del nostro brand ed evitare pericolosi deragliamenti sulla propria consistenza visiva.
3D Design
Grazie a software di modellazione che negli anni sono diventati di più facile utilizzo e meno cari è da qualche tempo che stiamo vedendo un fiorire di icone e visual costruiti in modalità 3D.
Il suo utilizzo può essere strategico nello stressare una percezione marcatamente Pop e Colorful del brand. Giocando con un realismo di ombre e profondità il 3D Design riesce sicuramente a uscire fuori dallo schermo, alzare la mano e farsi notare.
È uno stile più adatto alla creazione di hero per siti web e illustrazioni editoriali rispetto a usarlo come stile omni comprensivo di un’interfaccia utente, anche se non è raro ormai trovare singoli elementi di un’interfaccia web (bottoni, icone, ecc…) creati in 3D. Ricordiamoci però sempre di dare un’occhiata ai tempi di caricamento del sito, non sono sempre clementi con il peso anche se fatti in CSS o JS.
Sarà un trend che sicuramente rimarrà e si evolverà anche nei prossimi anni, andando verso un utilizzo più istituzionale (vedi il nuovo lavoro di brand su Windows Loop e Meta).

Brutalism
Mutuando il nome da una corrente architettonica degli anni 50 del novecento, questo stile ha cominciato a muovere i passi nel design in realtà dagli albori del web in maniera inconsapevole. Chi di voi ha vissuto l’epoca d’oro del 56k ricorderà questi siti web fatti quasi esclusivamente di font monospace, qualche gif un po’ sgranata e pattern di background ripetuti che rendevano i testi illeggibili.
Con il tempo il design anche sul web è diventato sempre più sofisticato ma, la storia dell’arte ce lo insegna, quando si esagera con il decoro la voglia di ripartire da “zero” è forte.
Diciamo subito che su questo il brutalism ci inganna. Potrebbe sembrare a una prima occhiata una necessità di un ritorno a un certo minimalismo. Ma se lo si guarda bene, soprattutto in alcune rappresentazioni più illustrative, c’è una certa predisposizione all’affollamento di elementi che lo relega difatti a un utilizzo quasi esclusivamente culturale o artistico (molto usato in artwork musicali), quasi elitario, sicuramente radicale.
È uno stile che negli ultimi anni ha cominciato già a definire una sua grammatica visiva attraverso l’utilizzo di elementi come sticker, gerarchie testuali estreme, una voluta poca attenzione alla leggibilità e una post-produzione fotografia ben precisa (flash usati con disinvoltura) oltre a colorazioni spesso nere e fluo.
Tutto ciò che può essere lontano dall’attitudine patinata anni 90 può entrare nel melting pot del Brutalism, a meno che non sia da prendere e parodizzare.

Psychedelic
Dopo anni di indiscusso dominio di un certo minimalismo grafico gli stili che oggi cercano di riprendere composizioni più ricche di elementi si moltiplicano. I risultati sono sempre altalenanti, di sicuro impatto ma spesso con vita molto breve o relegati a output cartacei o prettamente illustrativi.
In questo senso assistiamo a un ritorno della decorazione in stile seventies (a sua volta liberty nei primi del novecento) **che torna a essere presente negli artefatti, e non solo. L’utilizzo massiccio di elementi floreali, la ricomparsa di font tipici dei poster musicali alla Wes Wilson, anche reinterpretati in chiave più contemporanea, riprendono la scena.
Questo trend vive una sua contemporaneità anche nella riscoperta da parte della moda, in modo particolare grazie al lavoro di riscoperta di una certa estetica fatto da Alessandro Michele a Gucci, di un vestiario ricco di pattern floreali, colori sgargianti e ricchi di accessori.
Quasi assente invece il suo utilizzo in ottica di User Interface aldilà di qualche sperimentazione o di qualche sito vetrina legato a festival o eventi culturali, questo stile rimane legati al mondo dell’advertising, del packaging e degli artwork in generale, che sia la copertina di un disco oppure un poster, dove questo stile ha mosso i primi passi.

Organic and Nature
In un mondo sempre più sensibile alle tematiche della sostenibilità e a un rinnovato rapporto con la natura (l’esplosione di attività come il trekking e il naturismo in generale) questo trend riesce a farsi sempre più spazio anche nella comunicazione di aziende non strettamente legate a questo tema.
Grazie all’utilizzo di palette color pastello sapientemente combinate ed elementi grafici dalle forme organiche questo stile riesce a donare un ampio respiro alle composizioni.
La scelta dei soggetti in fotografia rappresenta spesso un protagonista sognante, in pace con se stesso a cui aspirare.
Dai prodotti cosmetici attenti all’ambiente e alle materie prime fino a buona parte del packaging che strizza l’occhio alla sostenibilità, questo stile riesce a trasmettere con immediatezza i valori più profondi del brand.

Retro Warmth
Se dovessimo scegliere una decade dove il futuro di ogni essere umano era visto ancora come un posto meraviglioso e lo stile non era qualcosa di relegato al passato ma si viveva nel presente, probabilmente risponderemo gli anni 50. Certamente gli anni 50 occidentali, quelli del cinema, quelli americani di Happy Days quelli della serie tv Mad Men. Le case si riempivano di elettrodomestici, tutto sembrava semplificarsi e volgere per il meglio dopo anni dolorosi e pieni di privazioni. Il capitalismo ci sembrava davvero la soluzione.
Le promesse, lo sappiamo, non sono state mantenute ma le sensazioni che ancora oggi risveglia quell’epoca ci fanno sognare. E oggi chi riesce a richiamare quello stile riesce a posizionarsi come brand di assoluta eleganza.
Un utilizzo oculato del colore, molto spesso anche solo bianco e nero, una grande attenzione nella scelta dei font, quasi sempre serif e grandi classici, iconografie e illustrazioni con quel preciso stile da carosello per usare una reference tutta italiana di quegli anni. Una trasposizione in grafica di un film di Wes Anderson per capirci.
È uno stile che si sposa molto bene a aziende che vogliono comunicare in un colpo solo stile intramontabile e un’attitudine luxury. In questo senso l’esempio della rivista Monocle è perfetto. Tra i primi a riprendere uno stile che 20 anni fa, nel pieno dell’esplosione del gusto digital, sapeva di polveroso e analogico, e che ora torna a dire la sua con forza in molti settori non necessariamente legati al business o al lusso.

Dissonant
Sulla scia del brutalism, da cui eredita un certo chaos gerarchico, sempre più spesso si vedono modalità di impaginazione o di composizione visual che se ne fregano di griglie, spaziature da manuale, pixel-perfect e compagnia cantante.
Con l’avvento del dekstop publishing negli anni 90 ci fu un grande fiorire di questo stile. David Carson fu tra i più importanti grafici che esplorò tutte le possibilità di questo “nuovo mezzo” che era il computer che permetteva di impaginare in maniera molto più creativa e di “rompere”, letteralmente, le griglie alle quali generazioni di designer erano rimasti devoti, che lo volessero o meno. Fu un exploit che nei decenni a venire rimase un’esotica moda anni 90 per qualche nostalgico appassionato.
Ha fatto invece il suo grande ritorno negli ultimi anni grazie in particolare a due rebranding che hanno fatto molto discutere. Per primo quello di Dropbox che sperimentò griglie estreme, accostamenti di colore molto forti, variable fonts tagli e accostamenti fotografici non di certo indulgenti nei confronti degli utenti. Ci fu molto dibattito intorno a questo rebranding, tant’è che si attirò molte critiche da una parte, e molti seguaci dall’altra. Tra chi ha ripreso questa idea c’è stata sicuramente Twitter che con il suo rebranding ha dichiarato di voler “riflettere appieno la complessità, fluidità e forza delle conversazioni d’oggi”
Questo stile, che definirei dissontante, si caratterizza grazie alla sovrapposizione di elementi che sembrano non considerare troppo la leggibilità ma che, dall’altra parte, ammiccano alle nostre sinapsi da sempre vogliose di cogliere quel qualcosa che rompa gli schemi (chi ha detto Futurismo?). Fotografie che finiscono sopra a un testo, sporcature e texture qui a là.
Se questo stile reggerà al passare degli anni? Non possiamo saperlo, indubbiamente sembra ben rappresentare una certa contemporaneità anche a discapito di una leggibilità immediata. David Carson ci mise in guarda già anni fa quando veniva aspramente criticato per i suoi magazine impaginati in totale libertà: “Non confondete la leggibilità con la comunicazione. Se qualcosa è leggibile non vuol dire che comunichi e, cosa più importante, non vuol dire che comunichi bene”.

Corporate Memphis (Flat Design)
Corporate Memphis è un termine usato per descrivere uno stile artistico piatto e geometrico, ampiamente utilizzato nelle illustrazioni Big Tech tra la fine del 2010 e l’inizio del 2020. [wikipedia]
L’ho voluto lasciare per ultimo perché forse questo rimane a oggi lo stile più usato da progetti web di tutti i tipi.
È diventato molto famoso nel 2013 quando Apple applicò questo stile al nuovo iOS 7 ridisegnando tutte le icone e mandando in pensione, almeno per un po’ di anni, lo skeumorphismo (cioè quello stile per cui si disegnavano le icone delle app in modo realistico).
In molti hanno poi notato che diversi anni prima, nel 2002, la tanto odiata Microsoft l’aveva già sperimentato nel suo stile chiamato Metro, ma si sa non basta certo l’idea a fare di noi degli innovatori.
Questo stile grafico è riuscito a mantenersi giovane proprio per la sua capacità di sintesi ed estrema funzionalità per gli utenti. Si veniva da un periodo in cui le interfacce web, e non solo, erano ricche di ombre, effetti rilievo, stava insomma dilagando l’utilizzo dei software grafici e del desktop publishing e la voglia di stupire con effetti speciali era tanta. Si pensava poco alle esigenze degli utenti, il concetto di UX era ancora una cosa per pochi.
Insomma si era reso necessario all’epoca un alleggerimento delle interfacce, di illustrazioni e icone appiattendo ombre e profondità con uno stile asciutto che non appesantisse e che lasciasse lo spazio ai contenuti delle pagine. E in questo il flat design ancora oggi riesce a dire la sua avviandosi a diventare un classico intramontabile pur non trasmettendo più quella freschezza del 2013.

Ci avviamo quindi verso un decennio di design manieristico? Chi può dirlo, sicuramente ci stiamo avviando verso un periodo storico in cui il gusto delle persone, e quindi anche dei designer, sarà fortemente influenzato dalla cultura della diversità e ci permetterà, speriamo, di prendere il meglio da tutto quello che ci circonda e ci ispira.
Senza fare barricate, limitarci o far rimanere i progetti imbrigliati in uno stile solo perché si è detto così o perché adesso è di moda così non considerando le necessità di racconto del nostro brand e quelle degli utenti che ne dovranno essere affascinati.